Cambiare mentalità e cultura del lavoro per uscire dall’inverno demografico
18 settembre 2023 – Riflessione alla luce dei primi dati dei focus group
Negli ultimi nove anni il nostro Paese ha perso un milione e mezzo di abitanti a causa della denatalità, come se due città grandi quanto Milano e Brescia fossero sparite nel nulla. Nel 1964 in Italia ci furono un milione e 350 mila nuovi nati, trent’anni dopo intorno a mezzo milione, con una modesta ripresa nei primi anni Duemila e poi l’inesorabile decrescita fino alle 393 mila nascite nel 2022. Anche nel primo semestre del 2023 la situazione è rimasta invariata, con un nuovo calo tendenziale. I dati che con incrollabile perseveranza Gian Carlo Blangiardo, già presidente dell’Istat, continua a fornire come elementi di riflessione per capire come invertire il trend negativo ci interrogano sulle ragioni profonde del declino demografico.
GIOVANI PIÙ AUTONOMI E RICUCIRE IL LEGAME TRA LE GENERAZIONI
Quando si affronta la questione in Italia si tende a dare una interpretazione univoca e prevalentemente economicistica del problema, secondo la quale l’incertezza economico-occupazionale, soprattutto tra i più giovani, porta a rimandare la scelta di fare un figlio o alla decisione di non averne. L’impressione però è che le ragioni sociali e culturali svolgano un ruolo affatto secondario negli andamenti demografici più recenti e che occorra un forte cambiamento di mentalità per uscire dal tunnel.
Le serie storiche ripercorse da Blangiardo sul quotidiano Avvenire la scorsa settimana stanno lì a dimostrarlo: nel primo trimestre del 1943 ci furono oltre 243 mila nascite, nel primo trimestre del 2023 ce ne sono state poco più di 91 mila. A colpire non è tanto l’alto numero di bambini nati durante la drammatica stagione della Seconda Guerra Mondiale quanto piuttosto quello ristretto dei neonati nel contesto odierno, in un’epoca di relativa pace e benessere. Qualcosa si è ‘spezzato’ nella mentalità degli italiani ed è necessario ricucire il legame tra generazioni o andremo incontro a un futuro con una economia sempre più debole, pensioni insostenibili, scuole svuotate e territori desertificati.
Scrive Blangiardo: “Per rilanciare la natalità sarebbe necessario creare le condizioni per accrescere l’autonomia, l’uscita di casa, dei nostri giovani. Oggi per ogni 100 residenti 30-34enni che hanno una loro autonomia familiare ce ne sono ben 444 che vivono ancora nella famiglia d’origine, mentre nel 1991 il rapporto era un terzo (per ogni 100 autonomi 152 in casa). Il passaggio successivo dovrebbe poi essere quello di mettere questi giovani in grado di operare senza ritardi la scelta genitoriale”.
Investire maggiormente nei sistemi dell’istruzione e della formazione universitaria, dunque, può incidere sulla capacità successiva di saper pianificare la vita familiare, sulla esperienza della maternità e della genitorialità, sulla educazione emotiva ed affettiva. L’aumento del costo della vita e la mancanza di opportunità economiche e occupazionali restano una barriera che può dissuadere i giovani dal formare una famiglia; ogni misura presa dal governo nella direzione di salvaguardare la stabilità finanziaria dei nuovi nuclei è benvenuta, ma occorre un cambio di mentalità complessivo nel Paese, nei giovani, nella scuola, nelle imprese, a livello politico e istituzionale.
INVESTIRE NEL WORK LIFE BALANCE PER UN WELFARE AZIENDALE PIÙ MODERNO
I primi dati ancora in fase di elaborazione che emergono dai focus group che la Fondazione Magna Carta sta realizzando nell’ambito del progetto “Per una Primavera demografica”, per indagare le motivazioni più profonde della denatalità, mostrano, ad esempio, la paura che serpeggia tra le nuove generazioni, soprattutto nelle regioni del Centronord, di non riuscire a conciliare tempo di vita e di lavoro dopo la nascita dei figli. Una sensazione che insieme agli alti costi necessari a crescere la prole scoraggia le coppie dal mettere la genitorialità al centro della propria esperienza di vita.
Si tende a rimandare la scelta di avere un figlio per il timore di non riuscire a gestirlo, prevale l’attendismo del ‘farlo ma non adesso’ illudendosi di poter controllare le dinamiche riproduttive, mentre l’orologio biologico scorre inesorabile. Se a questo si aggiunge la presenza di una cultura del lavoro che ancora guarda con sospetto ai processi di flessibilizzazione e digitalizzazione (accelerati dopo la pandemia da Covid 19), diventa evidente che il work life balance è un elemento cruciale sul quale intervenire per affrontare con soluzioni innovative la crisi demografica. Da questo punto di vista si dovrebbero incoraggiare le aziende ad adottare modalità di lavoro più flessibili, anche potenziando il lavoro a distanza, e orientare il welfare aziendale da un modello più centrato sulla attribuzione di benefit monetari verso servizi più ampi alle persone.
L’elenco delle pratiche da mettere in atto è lungo, congedi parentali più lunghi affiancati da politiche di rientro al lavoro per non penalizzare chi ha figli; congedi di paternità potenziati come elemento di equità tra i generi; maggiori opportunità nell’assistenza all’infanzia accessibile e di qualità. Il sostegno psicologico, alla salute fisica e mentale dei genitori, per esempio, dopo la pandemia è diventato cruciale nelle grandi aziende che operano in diversi Paesi europei. L’analisi delle normative nazionali in materia di welfare aziendale, delle buone pratiche applicate dalle imprese italiane, la comparazione tra l’esperienza italiana e quelle di altri Paesi europei sono un altro degli ambiti della ricerca portata avanti dalla nostra fondazione.
CONCLUSIONI
In Italia serve un welfare aziendale agile, flessibile, economicamente sostenibile non solo per le grandi aziende ma per l’intero sistema delle Pmi. Le politiche che innalzano i cosiddetti fringe benefit rappresentano certamente uno strumento efficace di sostegno al reddito ma occorre aggiornare le normative esistenti, semplificare la gestione operativa di incentivi e servizi investendo nella digitalizzazione permettendo, ad esempio, ai lavoratori di interfacciarsi direttamente con i fornitori dei servizi, oppure e ancora sostenere i dipendenti alle prese con il rimborso di mutui e prestiti.
Ridurre la pressione psicologica sui neogenitori o sulle coppie che vorrebbero fare un figlio ma lo rimandano nel timore di avere ricadute negative sulla carriera, o ancora peggio di perdere il lavoro, implementando sistemi di welfare aziendale dove madri e padri si sentano parte di una comunità nella quale la genitorialità viene vissuta come un valore condiviso oltre ad essere premiata dal punto di vista della offerta di servizi, è una prospettiva di lungo periodo che bisogna perseguire con coraggio.
Più in generale occorre intraprendere percorsi di formazione e informazione rivolti a tutti gli attori del mercato, PMI, associazioni dei datori di lavoro, fornitori dei servizi di welfare aziendale, collegando tutto questo alla battaglia che si gioca sul terreno della mentalità delle nuove generazioni. “Conforta osservare che a diversi livelli e nei differenti ambiti è andata crescendo decisamente la consapevolezza dei problemi, così come di alcune delle possibili soluzioni,” sottolinea Blangiardo. “La diagnosi di questa nostra demografia malata è ben chiara e sono ben note le conseguenze che rischieremmo di dover affrontare. Avviamo dunque in fretta la giusta terapia, attivandoci e accettandone, se necessario e ognuno per la sua parte, gli eventuali costi”.